domenica 5 febbraio 2012

This is one of those days...

Dire come mi sento in questo periodo è impossibile. Spiegare è impossibile.
Alcuni giorni sono normale, quasi felice, come se tutto ciò non fosse mai successo, come se scrivessi ad un amico immaginario invece che a te; altri giorni, come questo, la disperazione e il senso di perdita mi assalgono, mi schiacciano, mi infilzano come mille aghi pungenti, e non respiro e piango e tutto il mondo mi cade nuovamente addosso.
E so qual è l’unica cura.
Smettere di scriverti. Smettere di pensarti. Dimenticarti del tutto. Anche solo pensarci mi uccide, sento le lacrime scivolare più veloci, il respiro mozzarsi d’un tratto… alla sola idea di perderti di nuovo, definitivamente.
Perché quando dici che sei triste, che ti manco, che mi ami, perfino quando mi dici buonanotte, scateni una tempesta di emozioni che minaccia di spezzarmi da un momento all’altro; non sono forte abbastanza da sopportarlo.
Perché sei così lontano? Perché non sei qui a tenermi la mano e a tremare? Perché non sei qui a portarmi a casa permettendomi di cambiare la tua odiosa musica rap? Perché non sei qui a fissarmi e farmi ridere come solo tu sai fare?
Invece sei là. Fai parte di un mondo che ho lasciato e che non tornerà più, di quel mondo che si trova a seimila chilometri, a cui non ho potuto dire addio… nemmeno a te. Siamo in una situazione di stallo e ho paura. Ho paura di cosa succederà. Paura di andare avanti. Perché sai cosa significa, andare avanti… significa smettere di sentirti, smettere di parlarti, non venire a trovarti, non controllarti più so face book e twitter, dimenticare tutto. Sei tu che mi stai trattenendo. E lo so. Ma non ci penso. Non ci posso pensare. L’amore è irrazionale. Quando siamo innamorati tutto perde senso, non vogliamo sentire ragione, anche se sappiamo ciò che è giusto, lo ignoriamo e ci facciamo del male.
Non lasciarmi.
Cosa faremo? Ci scrivere per sempre? Vedendoci forse una volta l’anno? Che razza di vita è? Ma qual è l’alternativa? Lasciarti andare? Scriverti più di rado? Non ne sarei mai capace. Scriverti mi rende felice. È l’unica cosa che aspetto con ansia. Ed è perché ti amo. Perché mi sei stato strappato ancora prima che mi rendessi conto che eri mio, ed è ingiusto.
Perché tu sei unico. E sei perfetto per me. E non può essere una coincidenza. Tutto accade per una ragione, ma quale cazzo è questa ragione?! Perché ci siamo incontrati, innamorati e poi separati così brutalmente? Non vedo un perché, vedo solo dolore e perdita. E non riesco a farmene una ragione. I can’t get over it. Fa troppo male. Dolore fisico, mentale, semplicemente dolore.
It hurts like hell.
E se penso a tutte le cose che avremmo potuto fare, a tutte quelle che volevamo fare, mi si stringe il cuore e devo smettere di scrivere perché le lacrime mi accecano e devo spazzarle via dagli occhi, ma non faccio in tempo che ne fuoriescono altre.
Dovrei lasciarti andare, e tu dovresti lasciarmi andare. Non c’è altra soluzione. Ma non ce la faccio, non so se ce la farò mai. Io ti sto impedendo di andare avanti con la tua vita e tu stai facendo lo stesso, perché nonostante le nostre vite abbiano preso improvvisamente strade diverse, non vogliamo ammetterlo; perché fa troppo male. Perché la verità a volte ferisce, mentre l’amore è cieco, non fa ciò che è giusto.
I’m not strong enough to let you go, even though i should, even though it’s the only option and i know it.
Sarebbe più facile, non all’inizio certo, ma dopo sì, senza continui rimandi a ciò che ho perso e che non riavrò mai più; dimenticarti del  tutto, come se non fossi mai esistito. Non ho nemmeno una foto di noi due insieme, ho solo la tua bandiera americana che mi ricorderà per sempre i nostri primi i love you e non ho nient’altro… mi resta solo il tuo amore, ma quello se ne andrà, lo so, anche se adesso sembra impossibile. Come se non fossi mai esistito. Sei come una macchia sulla lavagna, posso cancellarti quando voglio, ma non sarebbe indolore, mi ucciderebbe. Ma poi saremmo liberi tutti e due. Ma il pensiero di te con un’altra mi fa attorcigliare lo stomaco e venire voglia di urlare di rabbia; potrei sopportarlo? E quando succederà? Cambierà tutto? Ci scriveremo ancora?
I hate this.
E mi manchi. Mi manchi come se mi mancasse aria, è come se avessi bisogno della mia dose quotidiana di te per sopravvivere, per questo aspetto ogni tuo messaggio come se ne dipendesse la mia vita, perché appena mi sveglio di notte controllo se mi hai scritto e ti rispondo, non importa che ora sia, mi importa solo parlare con te il più possibile, per godere di quegli unici momenti in cui mi sento intera.
Quando non ci siamo scritti per quell’unico giorno mi sono sentita meglio; non so perché, ma mi spaventa. Sono confusa e non so cosa fare. So che ti amo. So che sei lontano. Che mi manchi. Che ti penso ogni singolo minuto e non è mai abbastanza. Che mi hai capita come nessun altro mai. Che fai parte della mia vita e che devi uscirne, per quanto dura sia.
You’re holding me back.
Perché mi aspetto di tornare da te da un giorno all’altro, perché non ho ancora cambiato la mia città e scuola attuale su face book, perché non ho ancora svuotato tutta la valigia… perché la speranza è l’ultima a morire. Perché l’amore è irrazionale.
Ma non posso perderti di nuovo. La prima volta è stata straziante. E non era neanche lontanamente paragonabile alla distanza che c’è adesso tra noi. Quindi sarebbe dieci volte peggio, e non riesco nemmeno ad immaginarlo…
Voglio solo sapere perché. Perché deve essere tutto così difficile, perché qualsiasi decisione io prenda finirò per far del male sia a me che a te, perché è così facile innamorarsi ma lasciarsi è impossibile?
Alcuni giorni non riesco a ricordare il tuo viso. Ti succede lo stesso? Ho paura. I’m so scared of moving on. E la paura mi blocca; più che paura è panico, panico di perderti e di non avere niente da aspettare.
Credo di essermi prosciugata a furia di piangere.
Sento il bisogno di parlare con qualcuno, e il primo a cui mi rivolgerei sei tu, ma non posso, non questa volta. Che cosa ti direi? You’re the one who’s holding me back, I need you to let me go and I need to let you go, it’s the only option. Già scrivendolo mi suona impossibile da dire, anche solo da pensare.
E da una parte voglio che tu ti opponga, voglio che tu dica I will never let you go, ma sarebbe così sbagliato… tutto ciò è così tremendamente sbagliato; e lo so che a te non te ne importa, tu non fai mai quello che dovresti, ma quello che vuoi, te ne freghi di cosa dicono gli altri o se è sbagliato… tu sei forte. E so cosa mi diresti, don’t give up on me.
You worth every single tear.

I was enchanted to meet you

Scusate l’assenza, non ho smesso di scrivere per pigrizia, bensì perché la mia vita in questi ultimi mesi è cambiata radicalmente.
Non sono più in America.
Sono tornata in Italia il 13 gennaio, ed è difficile da digerire.
Ma partiamo dall’inizio; sarà una storia lunga, ma ho deciso di scrivere per aiutare i prossimi Exchange students, affinché nessuno commetta il mio stesso “errore”.
Iniziò tutto i primi di dicembre, quando A. (la mia migliore amica di X, mia sorella ospitante) mi fermò dopo scuola per chiedermi se X fosse arrabbiata; io le rispondo che so solo che X pensava che lei le stesse parlando male alle spalle (informazione riferitami dalla mamma ospitante, che d’ora in poi chiamerò M.). Sembrava finita qua, ma circa una settimana dopo, un venerdì, dovevo uscire con Marianne ma M. me lo ha impedito dicendomi solamente che la mia liaison, L, mi sarebbe venuta a prendere per il weekend. Comprenderete il mio stato di panico e confusione. Che cosa avevo fatto? Quando arriva L, finalmente M. mi spiega la situazione: A. ha detto a X. che io le avevo detto che una sera M. era entrata in camera mia urlandomi che A. non era affatto una buona amica. M. dunque si sentiva tradita e ferita da me, inoltre la sua reputazione di insegnante era stata macchiata. Non credeva che A. si fosse inventata tutto, che io non avevo mai detto nulla del genere. Poi venne fuori che io non sorridevo mai, che alle Bahamas non mi sono mai divertita, che non dico mai grazie, che quando guardiamo la tv non parlo mai (cosa che mi sembra abbastanza normale), e che – questo era il vero problema – passo troppo tempo con Alex. Alex era la mia migliore amica, non X. Bingo. Io preferivo Alex a X, e questo non andava bene. A quanto pare Alex stava cercando di rubarmi perché non aveva altri amici. E comunque, avevano bisogno di una pausa per riflettere. Io ero a terra. Mi sono improvvisamente resa conto che non avevo una casa sicura, che queste persone potevano mandarmi via in qualsiasi momento, come un pacco postale. Mi costringono a lasciare l’Iphone a casa. Durante il weekend passato da L, leggono tutti i messaggi con Alex e Peter e si sentono traditi perché mi sono lamentata con loro del mio rapporto con X.
Comunque, dopo il weekend torno a casa, ci chiariamo e questo è il verdetto: o la smetti essere amica di Alex o te ne vai. Io accetto, perché con loro mi trovato bene e perché è vero, a volte Alex è fin troppo invadente.
Il giorno dopo lo dissi ad Alex, e il vederla in quello stato mi ha provocato una sofferenza infinita. Sentivo la mia decisione vacillare.
Neanche due giorni dopo, a pranzo, Alex mi si avvicina per dirmi che era appena stata in ufficio a scuola perché accusata di bullismo, al che le rispondo. Le parlo. E le amiche di X. glielo comunicano subito. Quindi basta. Sono fuori. Chiuso. Non importa per che cosa le avessi parlato, il punto era che avevo tradito la loro fiducia ancora. Fui rispedita da L, che dovette andare a casa a farmi le valige (di nuovo, niente privacy), e non mi fu permesso di salutare nessuno.
Avvenne tutto durante il periodo natalizio, quindi nostalgia pura.
A Natale sarebbe arrivato il nipote di Lynne, quindi fui spostata da un’altra liaison, C, dalla quale mi trovai benissimo.
Il 28 dicembre, improvvisamente, mi dissero di fare i bagagli. Io pensai a una nuova famiglia, finalmente, ma quando vidi la macchina targata Maryland fui presa dal panico. Non serve che ti porti dietro i libri di scuola. Terrore. Dove andiamo? Ad Annapolis, a circa due ore di distanza. Per quanto tempo? Non lo so. Tornerò? Non lo so. È la mia nuova famiglia? No, è solo temporanea.
Disperazione.
Jimmy. Jimmy. Jimmy.
“I’ll come get you!”, “Don’t give me false hopes”, “Don’t go!”, “I can’t lose you…”, “It hurts so much!”, “What if I won’t see you ever again?”, “Don’t say that!!!”.
La casa era molto diversa da quella a cui ero abituata, ma lo racconterò dopo.
La notte fu tremenda. Non chiusi occhio perché tutto ciò che riuscivo a pensare era che venivo separata da Jimmy, da Alex, da Marianne, da Peter, da tutto ciò che amavo. E non capivo perché. L’avrei capito la mattina successiva.
Chiama AFS, “Dovresti prenderti un bicchiere d’acqua”, non promette mai niente di buono; mi fanno ripetere tutta la storia della famiglia, di Alex, ecc, poi si arriva Jimmy, inaspettatamente. La ex famiglia ospitante, avendo ancora il mio Iphone, era entrata con il mio profilo di face book, letto i messaggi privati con lui e andata dalla polizia. Quei messaggi risalivano al 20 dicembre, giorno in cui mi era stato comunicato che probabilmente sarei finita nello Utah in una famiglia/scuola mormone, e io, presa dal panico e senza cellulare, scrissi a Jimmy nell’unico modo che avevo. E lui andò fuori di matto. “I’m gonna fuck with her car; I’ll blow her house up; dirty bastards; they can suck my dick; they’re the most immature motherfuckers” seguiti da molti HAHA. Tono scherzoso, ovviamente non aveva intenzione di fargli esplodere la casa. Era semplicemente arrabbiato e ferito perché non mi avrebbe più vista. E io non l’ho fermato. Perché sapevo che stava scherzando, perché pensavo di essere al sicuro, perché mai più pensavo che cosa quelle parole avrebbero comportato. Entrambi eravamo indagati dalla polizia, per questo mi avevano cambiata di Stato (così non ero perseguitabile) e per questo dovevo andarmene immediatamente, nonostante (testuali parole) io fossi la vittima. Nonostante la stupidità della situazione, nonostante sì,la famiglia è paranoica e comunque non ha sporto denuncia. Nonostante a Jimmy non è successo niente, dovrà solo scrivere una lettera di scusa. Ma io sono italiana. Io me ne devo andare per qualcosa che non ho nemmeno fatto. Senza la possibilità di difendermi.
Stato di shock totale.
Era tutto finito. Tutto il mio sogno. Tutto. Jimmy. Il prom. Alex. Tutti. Il mondo mi era caduto addosso e non riuscivo a riemergere. Non credo di aver mai pianto così tanto. L’ingiustizia mi ha sconvolta, e non riuscivo nemmeno a ribattere, il mio cervello si era completamente bloccato.
Jimmy.
E non potevo tornare a Manassas per dire addio. E lui non poteva venire. E Alex nemmeno. Marianne è venuta, e mi ha fatto moltissimo piacere; ma noi ci vedremo ancora, non abitiamo molto distante.
Lui sta a seimila chilometri ora.
Comunque, non sono valsi a nulla i tentativi dei miei genitori o di AFS Italia, giovedì 12 gennaio avrei preso quel dannato aereo.
Prima di parlare del pandemonio che mi è successo all’aeroporto, vorrei descrivere la famiglia in cui mi sono ritrovata a passare ben due settimane.
È composta da: madre, lavora dalle sei alle sette; figlio di 16 anni, tipico adolescente problematico e incompreso; figlio di 23 anni (che AFS non sapeva fosse in casa), crede di essere musulmano e sposato, è stato in prigione. La casa: sporca; niente da mangiare (mangiavo la cena alle otto e fino alle otto del giorno dopo solo caramelle alla ciliegia, rimaste da Natale), o da bere (bevevo dal lavandino del bagno quando proprio non ce la facevo più a forza di farmi venire la saliva con le caramelle). Un giorno ero andata a comprarmi da mangiare prendendo l’autobus (che sono tremendi) e avevo anche fatto dei biscotti che, come per magia, sono spariti. C’erano tre cani: un cucciolo di pitbull che si divertiva a distruggere la casa, un cane ENORME e un altro cucciolo. Non uscivo mai. Non facevo assolutamente niente. Me ne stavo chiusa in camera (a chiave) fino alle otto di sera.
È stato il periodo più brutto della mia vita. Qualcosa che ti cambia.
Nel frattempo AFS (dopo quella telefonata) non si fece più sentire, quindi non sapevo nulla del volo o di niente.
Il giorno prima del volo vengo spostata nuovamente, la famiglia che mi ospiterà per la notte vive vicino all’aeroporto di Baltimora, e nemmeno loro sanno bene i dettagli riguardo il mio volo. Prima mi dicono che avrei preso l’aereo da Baltimora la mattina, sarei atterrata a La Guardia di NY e da lì avrei preso un autobus (da sola, ovviamente), per andare al JFK, dove avrei dovuto aspettare dieci ore, prendere poi l’aereo per Zurigo e da lì quello per Milano.
Io ero in crisi più totale.
La cosa che mi spaventava di più era il fatto dell’autobus. Mi sarei persa. Avrei perso l’aereo. Che cosa avrei fatto bloccata a NY da sola?!
Poi si informano (grazie al cielo!) e a quanto pare ci saranno degli altri Exchange students semestrali che partiranno da Baltimora, quindi potremo sclerare insieme.
Quindi la mattina mi accompagnano a Baltimora, faccio il check in e via.
L’ora prevista per il  volo però arriva, e poi passa. Panico. Mi alzo e vedo la scritta: CANCELLED. Panico. Terrore. Aiuto.
Non mi avevano lasciato un numero, non sapevo cosa fare. Che cosa voleva dire cancellato? Che cosa si fa in questi casi? La mia mente era appannata. Completamente. Che fare? Al gate non c’era nessuno a cui chiedere. Chiamo Lynne, mi calma e riesco a ragionare. Esco dal mio gate e vado ad un altro, chiedo all’assistente e lei (grazie al cielo) riesce a prenotarmi un posto sul prossimo volo.
Poi incontro gli altri Exchange students che mi rassicurano, a NY ci sarà qualcuno ad aspettarci.
Sono un po’ più tranquilla.
Siamo sull’aereo e non si parte.
“Abbiamo messo troppo carburante, quindi l’aereo pesa troppo, se sette volontari non scendono non si parte”.
Basta, fatemi solo arrivare a casa a questo punto…
Non c’è neanche l’aria condizionata.
Sette persone scendono, MA non si può ancora partire perché a NY c’è una tempesta.
Qualcuno lassù ce l’ha davvero con me.
Comunque, alla fine riusciamo ad atterrare, prendiamo le valige, incontriamo una rappresentante di AFS che ci porta in un hotel dove ci sono gli altri Exchange students semestrali e poi alle sei mi accompagna (sono da sola) al JFK.
Alle nove mi imbarco.
Dire addio via messaggio è tremendo, e cerco di scacciare le lacrime, ma il pensiero di stare per lasciare il suolo americano, che era tutto vero, mi schiacciava.
“I’m on the plane”, “Nooooo!”, “These are really the last texts, right?”, “Seems like it…”, “I was enchanted to meet you”, “Same here J you’ll always be my little Italian <3”, “I love you”, “I love you too”.

Questa è stata la mia esperienza.
Fantastica fino a dicembre, un incubo per un mese.
Ma rifarei tutto.
Ho trovato persone fantastiche, ho fatto esperienze incredibili e sopportato cose che mi hanno fatto crescere, forse troppo velocemente e brutalmente.
La mia è una storia diversa, ma voglio che sappiate, che capiate che l’America è diversa. La mentalità è così differente, e l’ho imparato a mie spese. Sono paranoici. Prendono tutto sul serio. Ed è comprensibile, soprattutto dopo l’11 settembre; le regole, la fiducia e la lealtà sono importantissimi, ogni piccola sfumatura cambia tutto.
Io sono stata sfortunata. Sfortunata perché ho trovato la famiglia che ho trovato, sfortunata perché non ho avuto l’appoggio che avrei dovuto avere e sfortunata perché ho subito un’ingiustizia, perché sono la vittima.
Ma la amo ancora, amo ancora l’America e la amerò per sempre.
Ma non è stato un addio, I’ll be back.